Dio in una scatola?

 

Immagine tratta dal blog di Timothy Yordy


Tentare di definire Dio concettualmente è un po’ come pensare di afferrare il concetto di oceano analizzando dell’acqua di mare contenuta in un bicchiere. 

Un errore apparentemente grossolano, ma che si perpetua laddove pensiamo che sia sempre corretto analizzare una parte per comprendere il tutto. Può andar bene per indagare i fenomeni che ci circondano, comprenderne il funzionamento e riprodurli. Va bene per catturare forze che operano sul mondo fisico, inscatolarle in una macchina e utilizzarle per semplificarci la vita. Per farlo, dobbiamo osservare, comprendere e studiare. Facciamo uso delle nostre facoltà mentali e dei prodigi che esse ci consentono.

Tuttavia, la mente non è tutto. 

La mente può essere regina del “Finito”, della realtà sottoposta a limiti: spazio, tempo, leggi fisiche. Il concetto di infinito già le sfugge, col solo pensarlo ne perdiamo la stessa idea. Lo riportiamo al finito, al limite. Lo mettiamo in una scatola per contenerlo e poterlo analizzare meglio. 

Se ci pensiamo bene, anche quando cerchiamo di raggiungere Dio con il solo pensiero facciamo lo stesso errore. Costruiamo coi nostri mezzi una scatola, nella speranza che possa contenere Dio. Se poi ci accorgiamo che nessuna scatola è idonea, magari arriviamo pure a pensare che, visto che le scatole le abbiamo costruite tutte a regola d’arte, non è colpa della scatola se Dio non può esservi contenuto. La scatola è a posto, non contiene niente perché non c’è alcun Dio da metterci dentro. 

La scatola, invece, non è per niente a posto.

Si dice che il simile conosce il simile. La conoscenza di Dio non ci è preclusa, fin dal primissimo capitolo della Genesi la Scrittura ci dice che l’Uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio. A me questa cosa fa riflettere: al di là dei miei limiti, partecipo in me stesso del concetto di infinito. Come vi partecipo? Dio mi ha dato la capacità di amare; l’amore è ciò che più si avvicina al concetto di infinito. E’ potenzialmente illimitato, contrariamente a quanto io possa dire della mia intelligenza. 

Cercare di comprendere Dio con la sola intelligenza e la sola ragione è un qualcosa di deleterio, un errore sempre in agguato non solo per l’ateo razionalista ma anche per il credente. Quante volte espressioni di fede più votate all’emotività, all’intuizione, all’immaginazione sono bollate come “demoniache”, devianti ed eccessivamente fantasiose?

La parola ‘demoniaco’ in sé ha sempre qualcosa di evocativo. Nella nostra cultura richiama al Diavolo, con buona pace del dáimōn di Socrate. Tralasciando elucubrazioni sul Nemico di Dio e di come agisce su noi poveri e confusi esseri umani, vorrei porre l’attenzione sul significato della parola ‘diavolo’. La parola greca da cui deriva il nostro lemma ‘diavolo’ significa ‘scindere, separare, dividere’. Il ‘diavolo’ dunque divide, crea conflitti e separazioni, allontana. Lungi dal voler affermare che l’intelligenza e la razionalità siano ‘del diavolo’ e che queste non siano necessarie, vorrei comunque provare a eliminare i pregiudizi sugli aspetti più emotivi e intuitivi legati alla Fede. E’ mia convinzione, infatti, che una Fede dove il raziocinio è compensato dall’emozione e dall’interiorità, dove la mente è tenuta a bada dal cuore, porti unità e riduca conflitti e separazione tra persone che puntano alla stessa meta ma seguono solo sentieri differenti. Diventa un vivere Dio integralmente, in tutto il nostro essere, che non è solo pensiero ma anche emozione e intuito. Nel nostro agire e nel nostro sentire, non tutto può essere razionalizzato e sistematizzato in senso assoluto. 

Quando parliamo di Fede, non può essere altrimenti: la Fede prevede una forte componente relazionale, un mettersi in dialogo con Dio. Un rapporto che non può che essere specifico per ogni essere umano, a cui è affidato il compito di trarre senso dal suo rapporto con Dio.

Viceversa, quando si cerca di generalizzare, quando si vuole definire un modello vero a prescindere, si entra in contrasto inevitabilmente con chi ha un sentire diverso e forse si perde di vista il vero obiettivo del credente, che è conoscere Dio, nel senso di conoscere una persona, una persona la cui presenza costante può essere intuita. Giova ripeterlo: non parliamo di erudizione ma di relazione. 

L’intuizione è un qualcosa di folgorante, una scintilla che ci porta ad avere la consapevolezza dell’esistenza di un qualcosa senza conoscere nel dettaglio quella cosa. Non la sappiamo spiegare, ma sappiamo che c’è. Allora cosa facciamo? Agiamo per approfondire quell'intuizione e con l’azione iniziamo a farla nostra, a viverla, a trarne conoscenza. Se parliamo di Dio, per conoscerlo realmente dobbiamo iniziare a metterci in ascolto. Nel nostro essere più profondo, da lontano percepiamo sempre l’eco di una voce che grida nel deserto. Una voce ovattata. Un suono che per raggiungerci si infrange contro molti ostacoli che ne riducono il volume, senza tuttavia zittirlo mai. 

La mente tenta di spiegare questa voce prima ancora di averla ascoltata; contribuisce a creare questi ostacoli, che non sono altro che dune nell'immenso deserto del nostro essere sulle quali noi stessi ci innalziamo. Quanto andiamo su dipende dal cuore. Il cuore ci dice che quella voce che tanto grida forse merita di essere ascoltata, l’intuizione ci dice che quella voce forse sta parlando proprio a noi.

Se decidiamo di ascoltarla, ci dice di spianare la strada al Signore. E allora realizziamo che il suono che arriva non è ben distinguibile perché nel nostro vagabondare nel deserto abbiamo innalzato dune e scavato fosse.

L’intuizione chiama all'azione. L’azione porta alla conoscenza.
La voce del Signore parla al cuore. Il cervello va messo al servizio del cuore.

Prendiamo la Scrittura, ad esempio. Noi cristiani troviamo Dio nella Bibbia, lo strumento che il Signore ha utilizzato per rivelarsi e per parlare all'uomo. Tuttavia, se tutta la verità su Dio fosse contenibile in un libro e se la sua natura fosse totalmente intelligibile e comprensibile con solo l’utilizzo del cervello (e della logica, che ne è un prodotto), probabilmente la Bibbia avrebbe una forma diversa. Sarebbe forse scritta in forma di trattato.

Ma l’evidenza mostra che non è così. La Bibbia contiene storie, storie che parlano direttamente al cuore, come a bypassare, momentaneamente, il cervello, per poi richiamarlo in causa, dopo che il messaggio ha fatto breccia, per metterne insieme “i pezzi” e rielaborarne il contenuto.

Se ci affidiamo solo al nostro cervello e alla sua capacità di sistematizzare, lasciamo fuori ciò che i nostri modelli non possono contenere: ciò che non segue le regole attraverso cui il pensiero funziona. Usando il solo cervello finiamo con l’isolarci, creiamo un muro che ci separa da Dio e dal Creato, non vediamo più ciò che ci lega ad essi. 

L’eccessiva razionalità ci condanna a vivere una esistenza disconnessa e priva di senso. L’Amore, che non può essere spiegato da una legge fisica, esce dal modello, pertanto la relazione che ci lega biunivocamente a Dio non è contemplata. 

Così perdiamo la capacità di trovare risposte, ma non perché le risposte non ci siano. Perché progressivamente perdiamo la capacità di farci le domande giuste.

Quando analizziamo la natura, diventiamo sempre più bravi a comprendere come essa funziona. Ma se dal chiederci “come”, passiamo a chiederci il “perché”, siamo altrettanto avanzati nella nostra comprensione? 

Perché esiste la vita? Beh, se tale risposta la affidiamo solo al cervello e ai suoi modelli logico-matematici, potremmo anche ingannarci che la risposta sia semplice: “esiste per una botta di culo”.

Giovanni

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